La Francia e la Turchia si sono trovate recentemente al centro di forti contrasti su questioni che interessano lo scacchiere mediterraneo. Questa situazione appare piuttosto preoccupante se si considera che Parigi e Ankara rappresentano due pilastri fondamentali dell’Alleanza atlantica. Un breve esame dell’evoluzione degli orientamenti internazionali di questi due paesi e dei fattori di tensione che li dividono può dunque offrire alcuni importanti spunti di riflessione tanto sugli equilibri politici nel Mediterraneo quanto sullo stato dei rapporti transatlantici.
La Francia è stata tradizionalmente percepita come l’enfant terrible dell’Alleanza atlantica. Sotto la guida di Charles de Gaulle, il paese uscì dalla Nato nel 1966, e la politica di grandeur perseguita dai governi di Parigi – e incarnata così bene dal generale – creò notevoli problemi non solo nei rapporti con Washington, ma anche nel quadro del processo di integrazione europea, soprattutto in campo politico. In tempi più recenti, la Francia si è distinta per la sua ferma opposizione alla guerra in Iraq del 2003, una posizione ben giustificabile dal punto di vista politico e giuridico e decisamente avveduta col senno di poi, ma articolata all’epoca con toni tali da creare una delle crisi più profonde attraversate dall’Alleanza atlantica. Lo scorso anno il presidente francese Emmanuel Macron ha provocatoriamente affermato il suo parere secondo cui la Nato si troverebbe in uno stato di “morte cerebrale” e ha invocato un maggiore impegno nella creazione di un’Europa più unita e autonoma nel campo della sicurezza e della difesa. Questa rivendicazione di prestigio e indipendenza – spesso percepita dai suoi vicini come una forma di ingiustificata arroganza – tende spesso a oscurare il fatto che la Francia sia stata in effetti un motore essenziale per l’integrazione europea e una potenza fondamentale per il mantenimento di un solido pilastro europeo nei rapporti transatlantici. La Francia non ha mai messo in discussione il suo impegno nel partecipare alla difesa collettiva sancita dal famoso articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, ed è tornata a far parte della Nato nel 2009. Inoltre, nonostante i contrasti emersi nel 2003, i governi di Parigi hanno in genere sostanzialmente appoggiato le iniziative e la visione del mondo transatlantici, e hanno dato contributi attivi e preziosi – sia dal punto di vista politico che in termini di risorse militari – in occasione di crisi come quelle del Golfo persico e nei Balcani negli anni Novanta o, più recentemente, nell’intervento in Libia e nella lotta contro l’Isis/Daesh.
Anche la Turchia ha tradizionalmente rappresentato un pilastro fondamentale, anche se decisamente problematico, nel quadro della sicurezza transatlantica. Il paese gioca un ruolo di primo piano dal punto di vista geopolitico e strategico per via della sua posizione geografica – che lo rende uno snodo fondamentale per gli approvvigionamenti energetici europei e una piattaforma di lancio per la proiezione di forze militari nello scacchiere mediorientale – sia per la notevole entità delle sue forze armate. Il modello politico turco inaugurato da Mustafa Kemal Ataturk negli anni Venti del secolo scorso, seppur non immune a tendenze repressive e autoritarie, si era dimostrato capace anche di garantire una società laica, una certa modernizzazione economica, e delle esperienze democratiche che apparivano sempre più solide. La Turchia aveva dimostrato un interessamento al processo di integrazione europea, e l’avvento nei primi anni Duemila di un governo di orientamento islamista, ma di stampo riformista, guidato dal partito AKP e dal suo leader, Recep Tayyip Erdoğan, sembrava destinato a realizzare l’idea di poter aprire le porte dell’Unione europea anche ad Ankara. I leader turchi hanno tuttavia dato non pochi grattacapi ai loro partner occidentali. La Turchia è da decenni in uno stato di conflitto con la Grecia, e nel 1974 ha invaso la parte nord di Cipro – uno stato membro dell’Ue dal 2004. Nonostante le aspettative incoraggianti, la prospettiva di un’adesione turca all’Unione europea sembra attualmente svanita. Erdoğan ha progressivamente abbandonato il suo slancio riformista e liberale e si è chiuso sempre di più in una spirale autoritaria e repressiva, inasprita da un fallito tentativo di colpo di Stato nell’estate 2016 e sfociata in una serie di riforme costituzionali tali da mettere drammaticamente in discussione la separazione dei poteri e da avvicinare la Turchia a un modello di regime personale centrato sulla figura del suo leader.
A questa svolta autoritaria sul piano della politica interna si è accompagnato un crescente e aggressivo attivismo sul piano della politica estera. Erdoğan ha attribuito le responsabilità del golpe del 2016 ai seguaci di un suo ex sostenitore, Fethullah Gülen – un influente studioso e leader spirituale turco attualmente residente negli Stati Uniti – e ne ha chiesto l’estradizione. Questa richiesta – rifiutata dagli Stati Uniti – è solo uno dei fattori che stanno portando all’incrinarsi dei rapporti fra e Washington e Ankara. Il governo turco, ha anche deciso di acquistare dei missili S-400 dalla Russia, una scelta motivata in gran parte dall’ambizione di acquisire tecnologie e sviluppare un’industria della difesa più indipendente, che però mette a rischio la sicurezza dell’Alleanza e ha indotto il governo americano a sospendere la partecipazione della Turchia dal consorzio per lo sviluppo dell’aereo militare F-35 e a decretare delle sanzioni nei confronti di Ankara. I contrasti fra la Turchia e i suoi alleati sono aumentati anche a causa del protrarsi della guerra civile siriana. Lo scorso anno la Turchia è intervenuta militarmente nel nord della Siria, un’operazione con lo scopo dichiarato di contrastare la minaccia terroristica, ma che di fatto è stata diretta anche contro le milizie curde YPG, una delle formazioni più efficaci militarmente nella lotta contro l’Isis e un partner affidabile per Washington. Il governo turco è arrivato a minacciare di ostacolare il dispiegamento di forze dell’Alleanza nei paesi baltici al fine di indurre gli altri membri della Nato a dichiarare le milizie curde come “terroristi”. La crisi siriana ha anche creato contrasti fra Ankara e Bruxelles. Il governo turco aveva infatti concluso nel 2016 un delicato e per molti versi controverso accordo volto ad evitare un afflusso massiccio di migranti nel territorio dell’Unione, ma lo scorso anno Erdoğan ha tentato di utilizzare i migranti come strumento di pressione, aprendo i confini con la Grecia e la Bulgaria.
Come già accennato, la recente politica turca, e soprattutto la dimensione mediterranea delle iniziative internazionali del governo di Ankara, ha generato forti contrasti in particolare con la Francia. Nel corso del vertice Nato tenutosi a Londra lo scorso dicembre, Macron ha mosso pubblicamente forti critiche nei confronti di Erdoğan e delle iniziative militari turche in Siria. Tuttavia i punti di tensione più scottanti fra Ankara e Parigi sono la Libia e il Mediterraneo orientale, due dossier che risultano sempre più intrecciati.
In Libia, il governo turco sostiene attivamente il Governo di accordo nazionale (anche noto come Gna o Government of National Accord) creato nel 2015 a Tripoli sotto l’egida delle Nazioni unite, e sostenuto anche dall’Italia. Erdoğan ha inviato in Libia – a sostegno del Gna – dei contingenti militari fra cui figurano anche combattenti siriani. Fra le ragioni del sostegno di Ankara spicca la conclusione di un accordo marittimo fra la Libia e la Turchia che può creare ostacoli legali allo sviluppo dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale da parte di Cipro, Israele e della Grecia, una partita che interessa anche l’Italia.
Macron ha recentemente ribadito il suo forte risentimento a riguardo della politica di Erdogan, e in particolare nei confronti dell’atteggiamento del leader turco in relazione alla crisi libica, in occasione di un incontro con il presidente tunisino Kais Saied. Tuttavia la posizione francese a riguardo della Libia non è priva di aspetti controversi. Il governo di Parigi si è infatti mostrato propenso a cooperare con Khalifa Haftar, un ex generale dell’esercito di Gheddafi – sostenuto in particolare dalla Russia e dall’Egitto – che ha creato un governo concorrente al Gna nell’est della Libia e ha cercato di rovesciare con la forza il governo di Tripoli. L’atteggiamento francese sembra essere in buona parte il risultato di un calcolo pragmatico che vede Haftar come un partner affidabile nella lotta contro il jihadismo, tuttavia la scelta è palesemente controversa e molto problematica per quei partner di Parigi che – come Roma – sostengono il Gna. Lo scorso 23 luglio, nell’esprimere la sua ferma opposizione a un intervento egiziano in Libia, Erdogan ha espresso pubblicamente le sue critiche contro la Francia, accusando Macron di esercitare un’influenza negativa e destabilizzante nel paese a causa del sostegno in favore di Haftar.
La scorsa estate, la tensione fra Francia e Turchia è ulteriormente salita in occasione di un incidente tra navi militari francesi e turche nel Mediterraneo. Il governo di Parigi ha accusato le forze turche di aver compiuto degli atti di intimidazione nei confronti di una fregata della marina francese che stava effettuando procedure di identificazione nei confronti di un battello sospettato di trasportare armi verso la Libia in violazione di un embargo decretato dalle Nazioni unite. L’incidente fra i due alleati ha portato anche a un’inchiesta a livello NATO. La Francia ha sospeso la sua partecipazione alla missione navale Nato di sorveglianza nel Mediterraneo – Sea Guardian – e trasferito i suoi asset militari in un’analoga operazione portata avanti dall’Ue – di cui la Turchia non fa parte. Nel mese di agosto, la Francia ha rinforzato la sua presenza nel Mediterraneo del sud-est dispiegando degli aerei e delle navi militari, a sostegno della Grecia e a fronte di azioni aggressive da parte della Turchia in riferimento al contenzioso legato ai giacimenti di gas presenti nelle acque di Cipro. In occasione di un vertice internazionale tenutosi questo settembre ad Ajaccio, in Corsica, Macron ha chiamato i suoi partner europei ad assumere una posizione più dura e unita nei confronti della Turchia, che non sarebbe più da considerare come un “partner” nel Mediterraneo. L’Unione europea si è in buona parte allineata alla posizione francese, e sta anche considerando la possibilità di imporre delle sanzioni contro la Turchia, un’eventualità che tuttavia viene vista con riluttanza da molti Stati membri, e che sta creando tensioni tali da riverberarsi sulle capacità dell’Ue di affrontare unita altre crisi importanti come quella in Bielorussia.
Come suggerisce l’analisi offerta in queste righe, sia la Francia che la Turchia si sono tradizionalmente distinte come due membri tanto importanti quanto problematici per i loro alleati. L’aspetto di novità che sembra caratterizzare l’attuale tensione fra Parigi e Ankara sta nella crescente sensazione che né la cornice europea né soprattutto quella transatlantica siano ormai in grado di contenere i contrasti e delineare un quadro comune di interessi e consenso politico di fondo. Una delle lezioni che si possono trarre dal sempre più evidente allontanamento fra l’Ue e la Turchia è che un’Unione che risulta oggi indebolita dalle molteplici crisi che la attraversano, non rappresenta più un’ancora capace di favorire il consolidamento dei processi di riforma e democratizzazione nel suo vicinato. Dal punto di vista del quadro transatlantico, in un momento in cui la Nato continua ad espandersi e a includere nuovi Stati membri, la sua coesione in termini di valori e interessi strategici sembra affievolirsi. Questo risultato paradossale è stato favorito in buona parte anche dall’atteggiamento del leader dell’alleanza, gli Stati Uniti. A seguito del pantano iracheno e della crisi finanziaria del 2008, i governi di Washington si sono dimostrati fortemente intenzionati a rivedere il ruolo globale degli Stati Uniti, e negli ultimi quattro anni questa tendenza ha assunto toni più forti e controversi. Nonostante la presenza americana in Europa e nel Mediterraneo sia negli ultimi anni aumentata, l’amministrazione guidata da Donald Trump, si è infatti dichiarata propensa ad adottare una prassi più marcatamente unilaterale e a favorire una visione del mondo incentrata sul breve periodo e sulle transazioni materiali, un approccio che sta in qualche modo inducendo i partner di Washington a riconsiderare i loro calcoli strategici e a cercare strumenti e strategie alternativi all’Alleanza atlantica per tutelare i propri interessi e la propria sicurezza. Da questo punto di vista appaiono più chiare dichiarazioni provocatorie come quella di Macron sullo stato di “morte cerebrale” della Nato o scelte controverse come quella di Erdoğan di acquistare gli S-400 russi. Le stesse tensioni tra Ankara e Parigi ci aiutano a capire come, in un contesto in cui il legame transatlantico perde la sua coesione e il suo senso di direzione, le potenze mediterranee non sono in grado di offrire cornici altrettanto coerenti ed efficaci, e sembrano anzi perdersi in strategie incoerenti e controproducenti.
Una ridefinizione del legame transatlantico, e l’assunzione di maggiore autonomia e responsabilità da parte dei partner di Washington, sono in qualche modo una prospettiva inevitabile, e non sono necessariamente da considerare come uno sviluppo destabilizzante o destinato a indebolire il rapporto fra gli Stati Uniti e i loro alleati. Tuttavia le tensioni fra Ankara e Parigi ci dimostrano come una gestione maldestra di questo processo possa diventare una seria fonte di conflitti. A poco più di un mese dalle elezioni presidenziali americane, il ruolo di Washington appare incerto ma ancora indispensabile per garantire la stabilità del Mediterraneo.
Diego Pagliarulo
[…] negativamente sulla missione anche i contrasti tra Grecia e Turchia e le crescenti tensioni tra Francia e Turchia, oltre al fatto che il governo di Ankara, già critico verso l’operazione, potrebbe ostacolare il […]